lunedì 2 aprile 2012

Da "Il processo di Gesù"


Riporto l’ultima parte de “Il processo di Gesù”, che ho pubblicato sul mensile La Piana di Palmi-RC - Anno X, dall’aprile al luglio 2011:

 […] (Pilato) informato dal centurione (della morte), concesse il cadavere a Giuseppe d'Arimatea, il quale, comprato un panno di lino, fece deporre Gesù, lo avvolse col panno di lino e lo pose in un sepolcro che era stato tagliato nella roccia. (Mc 15, 45-46).[1]
 Per la tradizione ebraica non si poteva uccidere un uomo che non fosse stato giudicato dal Sinedrio. L'organo preposto al rispetto della Legge era - generalmente - formato da 70 membri (oltre al presidente), che si riunivano nella sinagoga. I testi normativi prevedevano un quorum di 23 membri per la validità delle decisioni: il primo gruppo era costituito dai sacerdoti, il secondo da ricchi laici di Gerusalemme (anziani del popolo), il terzo dagli scribi.
 Fra i seguaci nascosti del Nazzareno c'era Giuseppe d'Arimatea, «uomo giusto e buono, […] hic non consenserat consilio et actibus eorum (che non si era associato alla loro deliberazione e alla loro azione)» (Lc 23, 50-51).
 Giovanni lo definisce «discepolo di Gesù, ma segreto per paura dei Giudei» (19, 38).  E' probabile che sia stato proprio il Divino Maestro a consigliarlo di tenersi lontano. Sarà lui a svolgere un ruolo determinante nella Passione.
 Giuseppe si fece dare da Pilato il corpo di Gesù che depose dalla croce, avvolse in un sudario, sistemò e sigillò nella tomba.
 L'evangelista Marco completa il ritratto di Giuseppe, «distinto membro del consiglio, il quale (come tanti giusti israelitici) aspettava anch'egli il regno di Dio» (15, 43).
 Ripercorriamo brevemente le varie tappe del Calvario per comprendere le angosciose condizioni fisiche e psicologiche di Gesù.
 La notte in cui fu tradito, al Getsemani «incominciò ad essere preso da terrore e da spavento. Perciò disse loro (ai discepoli): L'anima mia è triste fino alla morte. Rimanete qui e vegliate!» (Mc 14, 33-34).
 Seguirono il tradimento di Giuda, l'arresto, l'abbandono e la fuga degli apostoli, la comparsa da Anna, il rinnegamento di Pietro. Una delle guardie gli diede uno schiaffo; Anna lo mandò legato a Caifa, sommo sacerdote. E il gallo cantò tre volte.
 «Intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo percuotevano. Gli bendavano gli occhi e gli domandavano: Indovina: chi ti ha colpito?. E dicevano contro di lui molte altre cose, bestemmiando» (Lc 22, 63-65). Fattosi giorno, difronte al Sinedrio si celebrò il processo religioso. In disparte, Giuda si uccise; Gesù da Pilato e da Erode subì la condanna romana.
 Pilato, dopo l'interrogatorio e il rilascio di Barabba, lo fece flagellare dai soldati; quindi coronato di spine, schernito, spogliato, sputato ed ancora percosso  lo presentò: Ecce Homo! (Gv 19, 5).
 Si pervenne, così, all'ora della crocifissione e della morte.
 Dallo studio della Sacra Sindone si possono dedurre le sofferenze finali del Nazzareno. Il sudario, conservato nel Duomo di Torino, fin dal 1898 (anno in cui fu fotografato per la prima volta) è oggetto di controversie scientifiche, ma la sua veridicità sta nella fede di chi crede. Sul lenzuolo funebre è visibile l'immagine di un uomo di cui è identificabile la causa di morte, la crocifissione. Oltre alla rigidità cadaverica, si notano le ferite da flagellazione, i fori dei chiodi ai polsi e ai piedi, lo squarcio al fianco sinistro, le trafitte sul cuoio capelluto. La corta frusta (flagrum), con palline di piombo e ossa di pecora infilate nelle cinghie di pelle, aveva prodotto profonde lacerazioni sufficienti ad indebolire l'esausto fisico. Se a ciò si aggiungono il dolore lancinante del passaggio dei chiodi, il peso continuo del corpo, l'impossibilità di movimento e il colpo di grazia è chiaro che non c'era possibilità di sopravvivenza. La fuoruscita di sangue (corrispondente al gruppo AB umano) e liquido sieroso fu cagionata dallo squarcio della lancia acuminata.
 I segni della Sindone corrispondono alla testimonianza evangelica.
 Nella narrazione popolare di nonna Vincenza Femìa si rievocano i momenti più drammatici di Gesù e dell'afflitta Madre:
Matina di lu vènnari
a la strata di Maria,
e cu' vo' sentiri pianti
pemmu va' vàsciu a la Cruci
ca dà c'è Maria chi piangi:
Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Ca cincu piaghi 'nci fìciaru a fìgghiuma
chidi 'nfami e crudili;
ca cincu piaghi 'nci ficiaru a fìgghiuma
chidi 'nfami e tradituri!
E cu' vo' sentiri pianti
pemmu va vàsciu a la Cruci
ca dà c'è Maria chi piangi:
- Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
Chida piaga di li pedi
chida dà nd'ha fattu beni;
se fu chida di li mani,
chida fu caja mortali;
se fu chida di lu ventri
chida fu la cchiù dolenti;
se fu chida di la testa
chida fu la cchiù tempesta;
se fu chida di lu latu
'nci scasau l'arma e lu hjatu!
E cu' vo' sentìri pianti
pemmu va' vàsciu a la Cruci,
ca dà c'è Maria chi piangi:
- Fìgghiu caru, Fìgghiu duci!
 Per dissipare ogni dubbio sui veri colpevoli della condanna ripartiamo dall'antisemitismo, sentimento piuttosto diffuso anche prima del Cristianesimo, che considera il popolo ebraico nemico degli uomini e degli dei.
 «Forse la formulazione troppo schematica di Giovanni non avrebbe avuto tanto peso nei secoli successivi, se Matteo non avesse riferito l'incidente sopraggiunto alla fine del processo: E tutto il popolo rispose: - Il suo sangue ricada sopra noi e i nostri figli - ».[2] (Mt 27, 25).
 Dopo la morte di Cristo, però, i suoi discepoli dovettero subire le violenze delle autorità ebraiche.
 E' da ribadire che la conclusione del processo romano, come si evince anche dai Vangeli, fu dettata da motivi politici.
 Una prima ipotesi riguarda l'opera e l'atteggiamento di Gesù ritenuti sovversivi dal governatore. «Una seconda spiegazione è anche perfettamente conducibile con la condanna politica inflitta da Pilato: lo scontro di Gesù non fu con Roma, ma con i capi del suo popolo, in particolare con l'aristocrazia sacerdotale. Costoro tuttavia riuscirono a farlo apparire come rivoluzionario di fronte a Pilato, per cui ne ottennero la condanna».[3]
 Il Sinedrio, invece, da quando nella Giudea vi fu un amministratore romano, non poté condannare a morte. E' lo stesso Pilato a rispondere a Gesù: «Sono io forse un giudeo? La tua nazione e i sacerdoti-capi ti hanno consegnato a me» (Gv 18, 35). Ed ancora: «Non vuoi parlarmi? Non sai che ho il potere di liberarti e ho il potere di crocifiggerti?» (Gv 19, 10).
 Le regole processuali erano ritenute false se le testimonianze non figuravano concordi. Nel caso di Gesù, come scrive Marco, non furono concordi.
 «Quel consesso sinedrile è illegittimo ed iniquo: illegittimo poiché muove da un sequestro di persona, cioè da una cattura senza titolo e si svolge sulla base di false testimonianze; è iniquo poiché tende, come risultato finale, alla condanna di un innocente».[4]
 Per comprendere il significato della croce occorre, anzitutto, mettere in rapporto l'evento del Calvario con ciò che lo precedé e ciò che seguirà (risurrezione, parusia). Si deve, quindi, tener conto delle libere scelte di ogni protagonista;  prendere in considerazione il significato simbolico della crocifissione.
 Trascorsero dei secoli prima che si raffigurasse il supplizio di Gesù, per l'orrore che suscitava sia l'aspetto fisico sia quello simbolico della crocifissione.
 A parte la riduzione a puro ornamento, la croce dal quarto secolo divenne emblema di potere.
 Costantino, ardente cultore della dea Vittoria, dopo la conversione interpretò il successo come dono di Cristo (In hoc signo vinces).[5]
 Lo stesso significato, purtroppo, si rinnovò nei secoli successivi: i cristiani abusarono della croce come un'arma segreta per scopi militari e per commettere stragi.
 Nel 1972 il teologo luterano tedesco Jürgen Moltmann, con la sua opera Dio crocifisso, dopo la critica di tutte le forme alienanti di culto della croce, dimostrò come essa acquista senso solo se letta in modo escatologico e storico.
 «In Cristo risorto è racchiuso e anticipato il futuro dell'umanità: e Cristo non è altro che un oppresso, un essere ingiustamente condannato dagli uomini e salvato da Dio. La vicenda cristica è l'emblema di questa teologia della speranza per cui, guardando alle vicende di Cristo, tutti quanti possiamo sperare in una salvezza futura e attuantesi non in questo mondo, bensì nell'alto dei Cieli».[6]
 Il sentimento della nostra gente verso il sacro attinge radici profonde.
 Gli avi, come insegnò nonna Vincenza, prima di accingersi alle fatiche quotidiane praticavano il Segno di Croce e chiedevano al Signore l'aiuto dell'Angelo Custode affinché venissero salvaguardati dal peccato mortale:
Gesù, quandu mi levu la matina
dicitimmillu Vui com'haju a fari,
mandàtimi l'Angelu pe' guida
pe' nommu cadu 'n peccatu mortali.[7]
 L'atto più popolare e più eloquente del cristiano è, dunque, il segno di croce fin da tempi remoti.
 L'apologeta latino Tertulliano (155-230 circa) scrive: «Frontem signaculo crucis terimus» (De corona mil., 3, 11).
 Nella Chiesa tutto veniva consacrato con tale segno poiché dalla Santa Croce, fonte di ogni benedizione, scaturiscono le grazie:
 «Crux tua omnium fons benedictionum, omnium est causa gratiarum: per quam credentibus datur virtus de infirmitate, gloria de opprobrio, vita de morte» (S. Leone Magno, Sermo 8 De passione Domini).
 Tra le figure geometriche la Croce funziona da sintesi, mediazione, misura e comunicazione: in essa si congiungono Cielo e Terra, Tempo e Spazio.
 Il Cristianesimo ne ha rielaborato e arricchito il simbolismo per rappresentare il Cristo, il Verbo, la Seconda Persona della Trinità (il legno della Croce, secondo la leggenda, proviene dall'albero sorto sulla tomba di Adamo).
 San Paolino da Nola (353-431), vescovo e modello di perfezione, esulta:
 «O Croce, indicibile amore di Dio; Croce, gloria del cielo! Croce, salvezza eterna; Croce terrore dei malvagi. Sostegno dei giusti, luce dei cristiani, o Croce, per te sulla terra Dio nella carne si è fatto schiavo; per te nel cielo l'uomo in Dio è stato fatto re; per te la luce vera è sorta, la notte maledetta fu vinta. […] Sei diventata la scala su cui l'uomo sale al cielo. Sii sempre per noi, tuoi fedeli, la colonna e l'ancora: sostieni la nostra dimora, conduci la nostra barca. Nella Croce sia salda la nostra fede, in essa si prepari la nostra corona».
                                                                                          




[1] Dalla Via Crucis - Venerdì Santo 1991.
[2] Jean Imbert, Il processo di Gesù - Morcelliana, Brescia - 1984.
[3] Pier Claudio Antonini, Processo e condanna di Gesù - Claudiana, TO - 1982.
[4] Ubaldo Esposito, Il processo di Gesù - Edizioni Brenner, CS - 2000.
[5] Cfr. Gerald O'Collins, Verso una teologia della croce - (Da Rassegna di teologia).
[6] Dal sito www.filosofico.com: Jürgen Moltmann a cura di Diego Fusaro.
[7] D. Caruso, Storia e Folklore Calabrese - Centro Studi “S. Martino” - S. Martino (RC), 1988.

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